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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Sul metodo di Roland Barthes*
di Jean Molino

(Traduzione di Maria Gaia Crivella)

16 febbraio 2016




0.1. SCOPO. Partendo dal «corpus» costituito da tre pagine critiche di Roland Barthes dedicate a Racine [1], vorremmo tentare di analizzare il senso e i risultati del metodo critico utilizzato. Dunque non si tratta di formulare un giudizio generale sul metodo di Barthes, che implicherebbe uno studio dello stesso tipo dedicato a tutte le opere critiche di Barthes, e soprattutto un confronto con i suoi saggi teorici; in effetti, nulla a priori permette d’affermare che la sua pratica critica corrisponda esattamente al suo programma teorico, così come è esposto per esempio nell’ultima parte di Sur Racine, Histoire ou littérature, o in Critique et vérité. Noi eviteremo dunque ogni incursione al di fuori del corpus sopra delimitato e ci proponiamo di cogliere le procedure, esplicite o implicite, utilizzate nelle tre pagine indicate.

0.2. NOTA. Se ci è permesso, in effetti, di porci per un istante sul terreno delle affermazioni che non tenteremo di giustificare nel corso di questa esposizione, ma che ci sembrano essenziali, nulla può risultare più utile che un tipo d’analisi rigorosa, che tenti di ridurre in procedure oggettive, riproducibili, e, al limite, meccanizzabili, dei «discorsi critici» la cui ambiguità fondamentale risiede in una doppia pretesa: il rigore dell’approccio scientifico da una parte e la libertà della creazione letteraria; ora, allo stato attuale del lavoro scientifico — solo criterio valido delle procedure — ci sembra impossibile e pericoloso conciliare queste due esigenze [2].



I METODO. Non è possibile, per uno studio parziale, esporre e fondare il metodo che andiamo a utilizzare, e che d’altronde giustificheremo. Ma è necessario indicare un certo numero di principi e di presupposti senza i quali il nostro metodo apparirebbe esso stesso come soggettivo o non fondato.

I.1 Ogni studio stilistico — e ciò si intende per tutte le forme di spiegazione del testo, come pure i diversi tipi di ricerche censite per esempio da H. Hatzfeld (Bibliografia crítica de la nueva estilística) — fa parte di ciò che possiamo chiamare la parafrasi: cioè (definizione approssimativa e non corretta in una prospettiva di formalizzazione) ogni procedimento che consiste nel rendere conto di un testo attraverso un’organizzazione diversa — e più spesso «estrattiva» — dei suoi significanti. In effetti, tutti i moderni metodi di studio stilistico sembrano accordarsi su un primo principio metodologico: rendere conto del testo mediante il testo stesso. Anche se poi le strade divergono, e spesso non sono più fedeli con esattezza a questa esigenza tuttavia proclamata, la si può considerare come una necessità di ogni studio stilistico. Così, se ci si pone secondo un punto di vista che abbraccia tutti i metodi (statistico, psicanalitico, ecc.) utilizzati, appare che, formalmente, essi consistono nell’estrarre da un corpus C un insieme di elementi E (la cui unità può risiedere in un qualsiasi carattere che li accomuni), considerato come «particolarmente significativo» (è impossibile qui precisare in anticipo questa nozione, che obbligherebbe a entrare nel dettaglio delle strade utilizzate dai diversi critici) e ad affermare, più o meno nettamente, che la «chiave» dell’opera, la sua significazione, è data dall’insieme di elementi E e, all’occorrenza, dalla struttura interna di questo campo di elementi. Si tratta dunque, per la maggior parte del tempo, di una procedura d’estrazione, a partire da C, di una frazione qualsiasi degli elementi significanti che lo costituiscono — è questa procedura in generale che noi chiamiamo parafrasi, che possiamo schematizzare nel modo seguente: C (corp)us = un insieme finito di termini che, per semplificare e in maniera non rigorosa, diremo essere parole (ma che possono essere anche elementi delle parole ecc.) costituenti una serie: C = n parole, o C = n M sotto la forma M1+M2+M3 (+ significante la successione lineare).

La parafrasi consiste, sia nell’organizzare in modo diverso il testo: M1+M2+M3…? M1+M2…, sia, più spesso, a estrarre, mediante procedure più o meno rigorose, un sottoinsieme E di elementi: C=M1+M2+M3+M4+M5, da cui l’estrazione: E=M2+M4+M6 (si tratta qui di una procedura elementare d’estrazione, ma l’operazione può essere rappresentata attraverso una scelta operata nell’insieme delle parole del testo). Più semplicemente, stante un corpus come serie di parole, la parafrasi consiste sia in una permutazione di questa serie, sia nell’attrazione di una sottoserie, seguita o no da una permutazione.

La «stilistica» appare nell’affermazione, più o meno netta, che questo sottoinsieme estratto E «fa meglio comprendere il testo», «chiarisce il senso del testo», «lo spiega» (altrettante espressioni vaghe che non possiamo studiare qui), ne fornisce, se si vuole, un «modello» più o meno valido [3]. Noi non entreremo qui nello studio del senso che possiamo attribuire a questa procedura: ammettiamo provvisoriamente che questa estrazione fornisca un «modello descrittivo» del testo.

I.2 Vediamo allora il primo problema che si pone allo studioso di stile o al critico: quello della scelta. Noi intendiamo con ciò la procedura che permette di estrarre dalla serie C una serie E. Nella maggioranza dei casi — salvo gli studi statistici di cui Guirard e più recentemente Muller hanno fornito esempi — il critico non propone nessuna procedura rigorosa. La procedura che si basa su «categorie grammaticali» non è da ritenere «meglio fondata» di altre o, per esempio, quella che si sviluppa per nuclei semantici. In ogni caso, esse devono essere coscienti della loro ambiguità e della loro insufficienza metodologica. Il procedimento che ci sembra rendere conto in modo più ampio della effettiva condotta del critico è il concetto proposto da Starobinski di «lettura attenta», che ritroviamo ugualmente in Raymond, Poulet o Mauron: si tratta di lasciarsi pervadere dal testo fino a vedere o sentire emanare delle regolarità, delle ricorrenze di parole, di espressioni, di schemi di parallelismi o di opposizioni, di microstrutture ecc.

I.3 Il secondo problema da risolvere per la critica è quello della strutturazione dell’insieme E estratto. Neanche qui sembra in genere essere utilizzata una procedura rigorosa: vediamo apparire schemi presi in prestito dalla linguistica (opposizioni ecc.) ma senza che sia proposto un protocollo d’organizzazione dell’insieme.

I.4 Infine, ed ecco il termine e quasi la prova della procedura critica, mettiamo in rapporto l’insieme strutturato E e il corpus C considerando il primo come modello «valido» del secondo: questo rapporto costituisce il terzo problema della critica, che non è affatto risolto con un approccio preciso o oggettivabile.

I.5 Al termine di questo rapido inventario appaiono le articolazioni della ricerca critica che conviene analizzare più nello specifico per rendere conto dell’approccio di questo o quel critico, e dunque le questioni che conviene porre: 1) quale è il corpus C da cui parte? 2) che scelta opera e secondo quale procedura per formare l’insieme E estratto? 3) come struttura questo insieme E? 4) come, infine, mette in relazione questo insieme E e il corpus di partenza?

I.6 Nel corso dell’analisi del metodo di Barthes, separeremo dall’analisi i commenti personali — e non giustificati dal metodo che utilizziamo — che saremo portati a fare, facendoli precedere dall’indicazione COMMENTO.



II.1 Il Corpus C, da cui Barthes parte nel saggio scelto, pone già dall’inizio un problema. La prima frase di Barthes è: «Il y a trois Méditerranées dans Racine: l’antique, la juive et la byzantine.» A partire da questa prima frase, l’analisi si pone su tre livelli: quello del significante linguistico (che è, lo sottolineiamo, mare e mai Mediterraneo nell’opera di Racine), quello del significato (il «mare», insieme di tratti che liberano n occorrenze di «mare» nelle tragedie di Racine) e quello del referente (ambito di ciò che gli antichi filologi chiamavano i realia in Omero o Virgilio, e che è qui il mare-oggetto, che si arricchisce di tratti non derivati da occorrenze della parola, ma presi in prestito da un sapere dell’oggetto esterno all’opera di Racine).

La serie del primo paragrafo di pagina 15 si pone espressamente al terzo livello, quello del referente: «ces lieux que Racine n’avait jamais vus», ai quali viene a mescolarsi in due riprese il testo di Racine: «Trézène, où Phèdre se meurt…», e «dans Iphigénie, tout un peuple reste prisonnier de la tragédie»…

Il Corpus C di Barthes è dunque allo stesso tempo: 1) il «testo» delle tragedie di Racine, 2) i presunti significati organizzati e coerenti del teatro di Racine, 3) il contesto in senso lato, cioè il «mondo», referente che indica o al quale allude il testo del teatro di Racine.
COMMENTO
a) è dunque permesso, fin d’ora, di rimpiangere l’ambiguità essenziale dell’approccio critico di Barthes che, in questo momento, non ci appare né rigoroso, né strutturale nel senso corrente del termine: non è possibile sapere, in nessun momento, a quale livello d’analisi si ponga Barthes.
b) La classificazione in tre Mediterranei è «presente» nell’opera di Racine, cioè rivelabile mediante un’analisi semantica del teatro? Non ci viene fornita alcuna indicazione al riguardo.
c) I tratti ricordati per evocare la Grecia sono quelli della Grecia di oggi («il suffit de visiter aujourd’hui la Grèce pour comprendre la violence de la petitesse…») e si afferma, senza dimostrazione, che corrispondono («s’accorde») alla natura della tragedia raciniana: un approccio rigoroso avrebbe richiesto qui uno studio sistematico dei «tratti» del paesaggio raciniano, a partire dal teatro-corpus, e una «omologia» di struttura di questo paesaggio con il paesaggio della Grecia così come può descriverlo un geografo o un turista di oggi.
d) Possiamo evidentemente pensare che, per noi, la tragedia di Racine evoca la Grecia, e siccome la Grecia, per noi, è questa Grecia di oggi, «tertre aride, fortifié de pierraille», la tragedia di Racine è dunque questa Grecia di oggi. Vediamo dunque apparire un altro livello, il quarto, quello del significato dell’opera di Racine per noi, oggi. In effetti, non c’è alcun dubbio che noi «vediamo» un po’ attraverso Nietzsche, un po’ attraverso Lord Evans ecc. L’analisi di Barthes potrebbe dunque condurre a uno studio di tipo psico-sociale: quale è l’immagine della Grecia nella borghesia intellettuale francese del 1960? Così si costituirebbe un elemento di questo studio, mai svolto o poco più, di rifrazioni diverse di un’opera letteraria in società e a epoche diverse.
e) Solo, se lo si colloca nell’ambito della letteratura, converrebbe entrarvi e porre la domanda: per Racine e per i suoi contemporanei (non si tratta qui della personalità di Racine, ma di un’immagine intermedia in un certo strato della società in un certo momento), la Grecia era la stessa Grecia che è per noi? Questo sarebbe l’oggetto di un altro studio, dello stesso tipo del precedente, e di cui bisognerebbe confrontare i risultati prima di costruire una Grecia mista, che sia allo stesso tempo immagine di ieri e di oggi.
f) In effetti, e senza pregiudicare i risultati di una tale ricerca, si può pensare che la Grecia descritta da Barthes in questo primo paragrafo è una Grecia «vista» attraverso Hölderlin, Nietzsche, ecc., e non la Grecia, che costituirebbe miracolosamente un’idea assoluta, atemporale e definitiva, e che sarebbe allo stesso tempo la nostra Grecia, la Grecia di Racine, e la Grecia eterna.
II.2 Il seguente paragrafo di Barthes è il primo di una serie di quattro che portano il titolo comune: «La Chambre». Con questo paragrafo appare un nuovo ambito, che ci obbliga a far entrare un nuovo elemento nel corpus C da cui Barthes parte per studiare Racine: «Cette géographie soutient un rapport particulier de la maison et de son extérieur, du palais racinien et de son arrière-pays» (p. 15).

Come dire che deve essere preso in considerazione come elemento significativo dell’opera, lo «scenario» dell’opera di Racine. Ma questo scenario è esso stesso considerato da molteplici punti di vista, che non sono mai nettamente separati: il primo livello, che non è mai esplicitamente menzionato da Barthes ma che è inestricabilmente legato agli altri, è quello delle indicazioni sceniche espressamente citate dall’autore (o, si potrebbe aggiungere, dai macchinisti dell’epoca di Racine); in secondo luogo, ci sono le indicazioni che possiamo trarre dallo stesso testo delle tragedie di Racine. (Cf. la nota 1 di pag. 16: la funzione della Camera reale è ben espressa in questo verso di Esther:

«Au fond de leur palais leur majesté terrible
Affecte à leur sujets de se rendre invisible;
Et la mort est le prix de tout audacieux
Qui sans être appelé se présente à leurs yeux» (I, 3) [4]

Infine, il terzo livello è quello del referente, gli oggetti camera, anti-camera e porta, provvisti di tutta la ricchezza di una significazione extralinguistica multipla, giunta da tutte le impronte del sapere (in particolare, dalla sociologia dei miti e dei riti alla psicanalisi, come testimoniano i termini «trasgressione», «simbolo dello sguardo mascherato» ecc.) Questi oggetti sono d’altronde esplicitamente dotati di uno statuto particolare, che li isola dal contesto e li innalza come entità: la maiuscola con cui iniziano testimonia che sono Camera, Anti-Camera e Porta ipostatizzati, che partecipano dell’essenza di una Cerimonia tragica.
COMMENTO
a) questa estensione del testo agli elementi della scena pare legittima nel suo principio: quale che sia la difficoltà inerente al compito di determinare con precisione gli elementi significativi di un allestimento (cf. le difficoltà che si incontrano provando a costituire una semiologia dell’immagine o del cinema), è necessario fare entrare questi elementi in una descrizione, in una “spiegazione” dell’opera teatrale.
b) Ma il metodo utilizzato da Barthes ci aiuta a realizzare questo studio? Non mi sembra. Infatti, il risultato più chiaro del passaggio continuo da un livello di significazione a un altro è di rendere, nel senso pieno del termine, gli enunciati di Barthes indecidibili. Prendiamo la frase seguente: «il y a d’abord la chambre: reste de l’antre mythique, c’est le lieu invisible et redoutable où la Puissance est tapie: chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des Saints où loge le Dieu juif; cet antre a un substitut fréquent : l’exil du Roi, menaçant parce qu’on ne sait jamais si le Roi est vivant ou mort (Amurat, Mithridate, Thésée)» (pp. 15 e 16). Si possono (senza tentare qui di esplicitare tutti i rapporti che costituiscono «il senso» di questa frase) estrarre almeno le proposizioni seguenti: 1) c’è la camera, 2) questa camera si ritrova, in forme analoghe, nella camera di Nerone, il palazzo di Assuero, il Santo dei Santi del Dio ebraico, 3) questa camera è il luogo invisibile e temibile in cui la Potenza è appostata; 4) essa è il resto dell’antro mitico; 5) questa camera ha un sostituto frequente (la proposizione espressa da Barthes «cet antre a un substitut fréquent» implica un’importante precisazione apportata a 4), cioè: 6) la Camera è antro mitico; 7) l’esilio del Re è un sostituto della Camera-Antro; 8) questo esilio è minaccioso poiché non si sa mai se il re è vivo o morto.
Ritroviamo allora l’inestricabile diversità dei livelli d’analisi:
A) le proposizioni 1 e 2 rinviano a un dato d’ordine lessicale: c’è un significante camera nel corpus raciniano (testo e scena).
B) le proposizioni 1 e 2, così come le proposizioni 3, 6 e 8, rinviano a un’analisi semantica dei “valori” connotativi della Camera e dell’esilio del Re nel corpus raciniano.
C) Le proposizioni 5 e 7 affermano che c’è equivalenza tra la Camera e l’esilio del Re all’interno del corpus raciniano: livello d’analisi del contenuto che implica una procedura di “sostituzione” o di equivalenza.
D) Infine, la preposizione 4 fa uscire dal campo del testo di Racine e fa allusione a un sapere d’ordine storico e sociologico. È dunque impossibile pronunciarsi sul valore di verità della frase citata, poiché è composta da una molteplicità di proposizioni che prendono il loro valore in ambiti diversi. Si spiegano senz’altro così le difficoltà nel “criticare” un tale lavoro: ci sono poche possibilità che frase oggetto di critica, critica e risposta si pongano sullo stesso livello d’analisi.
II.3 Conclusione parziale: il “corpus” su cui lavora Barthes in queste tre pagine è dunque costituito principalmente da 1) il testo di Racine considerato secondo tre livelli d’analisi: A) significanti linguistici, B) significati linguistici più o meno sistematizzati all’interno del testo, C) “referenti” del testo raciniano secondo A e B. 2) Lo scenario di Racine, considerato anch’essa secondo tre livelli: A) scena espressamente indicata in quanto tale; B) scenario “indotto” dal testo di Racine; C) referenti di tale scena secondo A e B.



III.1 Il secondo problema è ora di chiarire le procedure attraverso cui Barthes, all’interno del corpus C così costituito, sceglie un sottoinsieme E (o una serie di insiemi E) cui conducono poi la sua analisi e la sua spiegazione.

III.2 Il principio che guida la scelta è qui un principio che si pone al livello semantico: Barthes estrae dal corpus le indicazioni in rapporto ai “luoghi tragici” (p. 15).
COMMENTO
Contrariamente alle apparenze, la scelta guidata da un principio semantico non è meno “esatta” né meno giustificabile rispetto a un principio grammaticale (morfologico o sintattico). Se gli esperti di stile preferiscono partire da un’analisi fondata sullo studio di una categoria morfologica o sintattica, è nel pensiero che gli inventari sono, in questo caso, limitati, e che la procedura di scelta (questa parola deve entrare o no nell’inventario?) è, almeno di diritto, processo di decisione, nel senso logico del termine. Ma, ciò che qui è “guadagnato” in esattezza è perduto sotto altri profili, poiché lo studioso di stile, a partire dall’inventario di significanti, deve poi fare un “salto” nel senso: le garanzie che circondavano la procedura di scelta non vengono più in soccorso. Si spiega forse così il carattere deludente degli studi di stile troppo esclusivamente fondati su categorie grammaticali. Ad ogni modo, un principio semantico di scelta non sembra meno valido di un altro.
III.3 Dunque come si fa questa scelta? Ci limiteremo a considerare il paragrafo (p. 15-16) che studia il primo luogo tragico, la camera. Secondo quanto già evidenziato sopra, gli elementi rilevati si pongono indifferentemente al livello del significante, del significato e del referente, del testo e della scena. Ma, ammettendo la confusione dei livelli che conferisce uno stesso valore a tutti questi elementi, in che modo Barthes ritiene che tali elementi abbiano un “rapporto semantico” con la camera?

Sembra che ci sia un inventario del campo semantico “camera” nel corpus raciniano che si articola in due modi di procedere: A) c’è un significato “camera” nelle tragedie Britannicus, Esther e Athalie. B) in altre tragedie di Racine, c’è un “sostituto” della camera, l’esilio del Re, come in Mithridate, Phèdre e Bajaset.

Ora, esistono undici tragedie di Racine; possiamo domandarci se Barthes ha proceduto per campionamento, o se l’analisi non porti che a queste sei tragedie; è stupefacente notare che in La Thebaïde, Alexandre le Grand (esempi forse discutibili nella misura in cui queste sono opere giovanili) e soprattutto in Andromaque, Bérénice e Iphigénie, non c’è né esilio del Re, né “le lieu invisible et redoutable où la Puissance est tapie”: Pirro, Tito e Agamennone sono qui, la loro potenza si manifesta nel gran giorno, e non ha bisogno di nascondersi, né di essere “un segreto”, né di essere “invisibile”.

In ogni modo, ammettendo che Barthes possa provare che le altre cinque tragedie di Racine offrono lo stesso luogo tragico, la camera, ciò non potrebbe essere che al prezzo di una nuova sostituzione che, come la prima (la sostituzione camera-esilio reale), non avrebbe valore preciso se non nella misura in cui si indichi una procedura di commutazione o di equivalenza.

III.4 La stessa analisi potrebbe essere condotta sui due paragrafi seguenti, che considerano un altro luogo tragico, l’Anti-Camera, e la Porta che separa la camera dall’Anti-Camera. Non c’è dunque alcuna procedura precisa di scelta nel corpus, neanche il vecchio principio lansoniano degli inventari completi che, nel caso di Racine, non sono impossibili.



IV.1 il terzo problema posto è quello di determinare le procedure grazie alle quali Barthes struttura il sottoinsieme (o i sottoinsiemi) così “estratti” dal corpus.
COMMENTO
a) è dunque più fondato qui fare riferimento a questo problema poiché il titolo della sezione a cui sono improntate le pagine studiate è “I. La Structure”. Lo scopo perseguito da Barthes è dunque proprio di strutturare l’insieme di elementi definiti secondo il termine di scelta in precedenza individuato.
b) Il senso delle parole “struttura” e “strutturare” pone evidentemente un problema preliminare. Rinviamo al libro di Granger, Pensée formelle et sciences de l’homme, e alla prefazione della riedizione; il termine struttura deve essere, per il momento, riservato alle strutture matematiche e alle strutture fonologiche. Georges Mounin attira l’attenzione sui pericoli di un utilizzo frettoloso e approssimativo dello strutturalismo linguistico nelle scienze umane (La Nouvelle Critique, settembre 1967).
IV.2 Lasciando da parte la prima struttura presentata in queste pagine, quella dei “tre Mediterranei”, ci limiteremo alla strutturazione dei “luoghi tragici”; Barthes, dalle indicazioni che estrae dal corpus eterogeneo che abbiamo studiato, ricava l’esistenza di tre luoghi tragici: la Camera, l’Anti-Camera, e l’Esterno.
COMMENTO
Il punto di partenza, ancora qui, e come avviene spesso nell’opera di Barthes, è interessante, poiché supera e cerca di approfondire le prospettive tradizionali: «Bien que la scène soit unique» vi sono più luoghi tragici. Cioè la scena propriamente detta non può essere isolata dagli altri luoghi che essa evoca, interno del palazzo e mondo esterno; la scena — lo abbiamo già detto molto tempo fa — è per il teatro classico un’anticamera, un luogo di passaggio. È dunque logico interessarsi ai rapporti che intercorrono tra questi due “luoghi tragici”: possiamo da questo parlare di struttura? No. Si tratta per il momento solo di una descrizione allargata, che ha lo scopo di mostrare il peso dell’esterno in senso lato (palazzo, camera o mare) sui personaggi e l’azione della tragedia. Non c’è struttura (o piuttosto sistema) se non a partire dal momento in cui questi luoghi tragici, oggetti definiti, intrattengono rapporti definiti e costanti; la struttura, secondo una definizione minima, è «un ensemble de rapports considérés comme caractéristiques et définis sans ambiguité».
IV.3 Barthes definisce ciascuno dei luoghi tragici. Prendiamo come esempio la definizione della camera: «Cette chambre est à la fois le logement du Pouvoir et son essence, car le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme épuise sa fonction; il tue d’être invisible; dans Bajazet, ce sont les muets et le noir Orcan qui portent la mort, prolongent par le silence et l’obscurité l’inertie terrible du Pouvoir caché» (p. 16). Il susseguirsi delle proposizioni si presenta come una definizione d’oggetto, o piuttosto di una categoria d’oggetto ipostatizzata, la camera: una tale definizione deve dunque poter essere sottoposta — e ci scusiamo per dover esplicitare tali evidenze — a verifica, cioè tutte le camere della tragedia raciniana devono rispondervi. Senza tornare alle tragedie in cui tale camera sembra difficile da rintracciare, possiamo dire che la “camera” così descritta è un equivalente, un “sostituto” dell’esilio del Re? Nel caso di Teseo per esempio, come affermare e come giustificare che «le Pouvoir n’est qu’un secret: sa forme épuise sa fonction; il tue d’être invisible».

Solo tre tragedie — Britannicus, Esther e Athalie — presenterebbero una Camera che corrisponde alla definizione: ci si potrebbe ancora legittimamente domandare cosa voglia dire, nel senso normale del termine, la proposizione «sa forme épuise sa fonction» e a quale contenuto esplicito essa rinvii.

Ultimo problema: perché dare il nome di “camera” a questo luogo di soggiorno della Potenza? Barthes enumera: “chambre de Néron, palais d’Assuérus, Saint des Saints où loge le Dieu juif”. «Camera» è ben lontano dall’essere denominatore comune di questi tre luoghi, e vediamo chiaramente quali connotazioni psicanalitiche introduca tale termine, privilegiato senza che sia fornita alcuna giustificazione.
COMMENTO
si vede d’altronde abbastanza facilmente come si costruiscono le analisi di Barthes: attraverso una sorta di pressappoco e di scivolamenti, si parte da una frase, una scena, una parola di Racine, una battuta di spirito o più spesso una metafora, da cui si estrae un “être de raison” che viene generalizzato senza alcuna verifica. Qui, l’idea del Dio nascosto, l’immagine del serraglio e i lavori di Mauron sono sufficienti a costruire una Camera, luogo della Potenza, che, come abbiamo visto, non si ritrova in AndromaqueBérénice. Ora, poiché un’esperienza (un contro-esempio) contraddice un’ipotesi, sembra naturale — per il critico come per l’uomo di scienza – cambiare l’ipotesi...
IV.4 lo studio del secondo luogo tragico, l’Anti-Camera, conduce alle stesse conclusioni: la definizione fornita è, a rigore, soddisfacente solo per un numero limitato di tragedie.
COMMENTO
sottolineiamo innanzitutto, oltre al gioco delle maiuscole di cui Alain direbbe che fa parte di questi mezzi di cui fanno uso gli Importanti per approfittare degli ingenui, l’ortografia caratteristica: Anti-Camera in due parole — con due maiuscole — è un ritorno all’etimologia? (ma cosa rivela questo ritorno?) sembra ben chiaro che l’anticamera si trova prima, davanti alla camera…).
Qui, l’Anti-Camera è definita come «espace éternel de toutes les sujétions, puisque c’est là qu’on attend». Certo, è in qualche modo vero; ma è anche, esattamente, il luogo in cui ci si incontra, ci si ritrova, (“oui, puisque je retrouve un ami si fidèle…”). È da dire che tali definizioni, vere qui e false là, vere in un senso e false in altro, non hanno alcun interesse, alcun valore se esse non si propongono esplicitamente di rendere conto di un insieme dato di elementi, cioè se esse non offrono nello stesso tempo un estratto completo di questi elementi e una procedura di verifica delle ipotesi. Si può dire dell’Anti-Camera di Racine esattamente ciò che si vuole; ciò avrà sempre un valore eccitante per lo spirito, potrà raggiungere con più o meno frutto dei risultati inattesi: mai una tale definizione avrà un senso valido né utilizzabile.
COMMENTO
la mancanza di rigore nella costituzione del corpus o nella scelta di un sotto-insieme all’interno del corpus non invalida necessariamente la tappa seguente: in effetti, allo stato attuale dei metodi d’analisi, è permesso proporre, in modo del tutto empirico, un modello (oggetti e strutture) ottenuto senza rigore ma efficace per rendere conto del corpus. È allora necessario che oggetti e strutture siano definiti in modo chiaro e distinto. Non è questo il caso.
IV.5 In cosa consiste dunque la “struttura” dei luoghi tragici? Per il momento, le due definizioni non costituiscono una struttura. I rapporti tra Camera e Anti-Camera sono materializzati mediante la Porta. È sorprendente costatare che le relazioni tra Camera e Anti-Camera sono esse stesse definite come un oggetto tragico: la struttura appare come una semplice configurazione in cui il solo rapporto è quello della successione lineare; ci sono tre oggetti-luogo: Camera, Porta e Anti-Camera che si succedono d’infilata e che i personaggi percorrono in tutti i sensi.
COMMENTO
ritroviamo evidentemente le difficoltà già riscontrate per definire con precisione questo nuovo oggetto-relazione, che è il supporto di determinazioni ora comodamente contraddittorie («la contiguité et l’échange»), ora troppo vaghe («on y veille, on y tremble»); in ogni modo, non si sfugge mai, in base all’estratto di tutte queste determinazioni, alla conclusione secondo cui si tratta di elementi improntati a quello o a un altro passaggio di un’opera, e impropriamente dati come caratteristici della totalità dell’opera di Racine. Allo stesso modo, la procedura che permette di “sostituire” il Velo o il Muro alla Porta non è in alcun modo indicata.
IV.6 c’è dunque un altro livello in cui gli oggetti intrattengono tra loro relazioni: è quello in cui questi oggetti tragici — luoghi che definiscono una geografia — sono a loro volta il terreno in cui agiscono dei personaggi e il simbolo incessante delle loro azioni reciproche. I rapporti tra luoghi tragici non esistono che nella misura in cui si iscrivono nello spazio e simbolizzano le relazioni tra personaggi. La struttura dei luoghi tragici non è che l’incarnazione spaziale di modi di essere o di situazioni psicologiche divenuti cose. Sarebbe a dire che la Porta non è più porta, il Muro non è più muro — e allora capiamo perché Barthes scrive queste parole con la maiuscola — la Porta, il Muro non sono più niente di materiale (“le Voil … n’est pas une matière inerte …”), bensì la concrezione ingannevolmente materiale di una significazione esclusivamente psicologica.
COMMENTO
vediamo dunque l’ambiguità fondamentale di una tale “struttura”: come struttura spaziale, offre la resistenza e la coerenza di un’anatomia che supporta la tragedia; ma qui, il contenuto specificamente spaziale della struttura è pura successione, cioè la struttura più povera che si possa immaginare e che non ci apporta alcun chiarimento sulla tragedia. Inoltre, dietro e sotto i termini spaziali si nascondono realtà psicologiche (qui psicanalitiche), cosificate e indurite per diventare oggetti. Si tratta di riprendere approssimativamente i risultati d’analisi come quelle di Mauron e, per eliminare ciò che potrebbe apparire come uno psicologismo, di trasportare il contenuto di queste analisi nella definizione di oggetti e luoghi del mondo. Straordinario avatar di uno psicologismo che, per evitare la tradizionale analisi psicologica del teatro classico, psicologizza totalmente il mondo della tragedia. Comprendiamo così come tali “strutture” possono presentarsi di volta in volta come analisi “rigorosa” di oggetti e come ricche di senso tragico che veicolano i personaggi; lo pseudo rigore dell’analisi conduce tutta la “significazione” molteplice e irriducibile delle passioni e delle relazioni umane.



V.1 Ultimo problema: come si attua la messa in rapporto tra la strutturazione di E operata secondo procedure in precedenza evocate e l’insieme del corpus raciniano? Cioè come e in cosa E rende conto di C e lo “spiega”?
COMMENTO
ecco dunque una delle articolazioni essenziali di ciò che chiamiamo — impropriamente — lo strutturalismo nelle scienze umane; è anche l’elemento che segna più nettamente la differenza tra le strutture in senso stretto, matematiche e fonologiche, e le strutture in senso ampio (sistemi nel senso stabilito da Granger e pseudo-strutture). La struttura matematica ha un senso immanente, precisamente localizzato nella struttura stessa, con appena questo margine di significazione (nel senso di Granger) che è il residuo non tematizzabile su cui si fonda il contenuto dell’evidenza di una relazione o di un processo. Al contrario, la “struttura” nelle scienze umane ha un suo senso al di fuori di se stessa: inizialmente sembra avere la funzione di “spiegare” un oggetto o una costellazione di oggetti; sembrerebbe dunque dare il senso di questo insieme di oggetti. Infatti, ci si accorge presto che la struttura qui non può esistere da sola: essa non esiste che nel rapporto e attraverso il suo rapporto con gli oggetti di cui deve rendere conto. Una struttura di gruppo o ad anello ha un senso interamente (o quasi) fondato su assiomi che la definiscono; allo stato attuale del lavoro scientifico, una struttura, nelle scienze umane, non ha senso che attraverso gli scambi furtivi che intrattiene con gli oggetti che vuole strutturare. Il “senso” di queste strutture è intriso di “significazioni” improntate agli oggetti che si vogliono spiegare.

Da ciò il procedimento strutturalista: esso consiste nell’affermare una “omologia” tra strutture improntate a livelli diversi di oggettività; così Goldmann mette in relazione una struttura ideologica, quella delle tragedie di Racine o delle Pensées di Pascal, con una struttura sociale, quella del giansenismo di toga nella Francia del XVII secolo. Cosa significa qui il termine “omologia”? Si tratta di un’analogia in senso vago: la struttura è stata definita mediante relazioni ambigue tra oggetti non rigorosamente definiti, in modo da costituire un essere misto che, al prezzo di incessanti scivolamenti, può adattarsi sia a realtà ideologiche sia a realtà sociali; non c’è “omologia” di struttura poiché la struttura è stata costituita per rendere conto di una corrispondenza tra due ambiti di realtà e grazie a determinazioni che partecipano più o meno nettamente dei due ambiti.

Ora, la descrizione di un ambito di oggettività e, all’occorrenza, la sua organizzazione in struttura non hanno valore se non si separa il risultato dai processi attraverso cui questo è stato raggiunto; per il momento, non c’è somiglianza tra le procedure della storia della letteratura, della sociologia della conoscenza, della storia della mentalità e degli studi sociali: è solo a prezzo di un’ipostasi, che separa e isola i risultati dal protocollo sperimentale o teorico del procedimento, che possiamo “mettere in rapporto” oggetti e relazioni che sono, in senso stretto, incommensurabili. Da ciò, la necessaria e fondamentale ambiguità di questa messa in rapporto che non sembra spiegare un livello di oggettività mediante un altro se non laddove la struttura che permette questo passaggio era, fin dall’inizio, fatta “a piacere” per renderlo possibile. Lo “strutturalismo” di oggi si fonda su una perpetua e essenziale metábasis eis állo génos.
V.2 Abbiamo visto che la “strutturazione” dei luoghi tragici in Camera, Anti-Camera ed Esterno non poteva essere considerata come una “immagine” utilizzabile e valida del Corpus raciniano. La volontà di spiegare era già presente nella scelta e nella strutturazione dell’insieme di elementi considerati come pertinenti. Si potrebbe abbastanza logicamente riprendere il termine alla moda di “lettura” per definire tale metodo, più o meno consciamente applicato oggi, ma senza riflessioni sulle sue implicazioni metodologiche: si tratta, come abbiamo visto, di affermare che tale o talaltra strutturazione locale di un’opera è la “chiave” di quest’opera. Ora, la struttura locale che costituisce l’analisi dei luoghi tragici non potrà servire a spiegare, decriptare o descrivere l’opera di Racine, se non nella misura in cui essa veicola surrettiziamente tutta la significazione di cui essa vuol rendere conto. Le analisi precedenti lo hanno mostrato a sufficienza, la strutturazione dei luoghi tragici figurata da Barthes spiega il teatro di Racine in e attraverso ciò che essa aveva improntato al contenuto di questo teatro: essa ritrova nel teatro ciò che essa aveva già preso all’inizio del procedimento e già trasformato a priori per i bisogni della sua “lettura”.
COMMENTO
è dunque consentito distinguere in questa pagine di Barthes da una parte un metodo, dall’altra delle intuizioni, degli avvicinamenti, delle spiegazioni. Il metodo non può apparire come la descrizione precisa e rigorosa dell’Homo racinianus (p. 9), non può essere considerato più come metodo “strutturale” (p. 9) in senso stretto. Resta così solo un’utilizzazione frammentaria e approssimativa della tematica psicanalitica; Barthes procede a una “lettura” psicanalitica ma senza mai procedere secondo le norme del metodo psicanalitico. È qui che appare la contraddizione essenziale tra i due aspetti inseparabili dell’impresa: congiungere al metodo più informale e soggettivo le affermazioni più categoriche di rigore metodologico.



VI CONCLUSIONI. Si potrebbe, al termine di questa analisi, indirizzare una critica di fondo alla nostra ricerca: perché l’opera di Barthes avrebbe bisogno di procedure esterne al suo procedimento, e che Barthes potrebbe rifiutare a priori considerandole come non valide per rendere conto del suo metodo critico? Se abbiamo aspettato fino alla fine per rispondere a questa obiezione, è che ci sembra che la ricerca stessa debba incaricarsi di rispondere nella misura in cui essa sarà stata correttamente condotta. In effetti questa ricerca può sembrare che forzi il testo di Barthes e che gli ingiunga di spiegarsi: molto semplicemente perché è necessario oggi, nell’analisi dello stile o in critica letteraria come in ogni scienza o in ogni disciplina che aspiri ad uno status di scientificità, più che di ottenere dei risultati, di essere cosciente dei metodi utilizzati per ottenerli.

L’analisi dello stile e la critica letteraria, allo stesso ritmo delle scienze umane, vedono moltiplicarsi i lavori più eterogenei, più brillanti e più appassionanti in molti casi: cosa ne resta? La scienza si costituisce a partire da processi di accumulazione, cioè precisamente quando un risultato è stato ottenuto al termine di un processo assolutamente riproducibile da qualsiasi ricercatore: ciò permette in ogni momento di andare più lontano poiché ci si è assicurati la verità sempre garantita di ciò che precede. La critica letteraria è lontana da questa situazione poiché, al contrario, essa è luogo di tutte le confusioni, di tutti i guizzi, di tutte le sottigliezze di metodo non rigorose.

Barthes precisamente proclama il diritto a questa soggettività senza limiti: “Le critique doit lui-même se faire paradoxal, afficher le pari fatal qui lui fait parler de Racine d’une façon et non d’une autre” [5]. Ironizza sulla contraddizione che scopre tra positivismo e stregoneria nella critica letteraria tradizionale [6]. Ma Barthes, più di ogni altro, si mette in questa contraddizione perpetua: se afferma di tenere fede alla scommessa della soggettività, dice anche che «la première règle objective est ici d’annoncer le système de lecture, étant entendu qu’il n’en existe pas de neutre». Allo stesso modo, nella Prefazione a Sur Racine, Barthes scrive: «Ce que j’ai essayé de reconstituer est une sorte d’anthropologie racinienne, à la fois structurale et analytique: structurale dans le fond, parce que la tragédie est traitée ici comme un système d’unités (les “figures”) et de fonctions» [7]. Se le parole sistema e struttura hanno un senso — soprattutto poiché nella nota 3 di pag. 9 Barthes vuole riprendere dei “termini strutturali” (?) — ciò che si può e si deve domandare alle analisi di Barthes non è la Verità; per restare sulle sue posizioni metodologiche gli si chiede la validità: cioè che la sua lettura, il suo sistema quali che siano devono essere validi per l’insieme degli oggetti di cui essi vogliono rendere conto, cioè il teatro di Racine. C’è, anche lì, un’esigenza positivista o pseudoscientifica, che dir si voglia. Se Barthes vuol presentare un sistema, una struttura, facendo a più riprese allusione a questo tipo di strutture che sono le strutture linguistiche, bisogna che questa struttura sia definita, coerente e renda conto degli oggetti che pretende di strutturare: noi pensiamo di averlo mostrato su un campione, le strutture di Barthes non possiedono alcuna di queste proprietà. È ci sembra, una causa molto più confusa di quella della critica letteraria tradizionale: il metodo di Barthes riflette l’ambiguità del metodo della critica letteraria (e delle scienze umane in molti casi) oggi: da una parte, l’acuta consapevolezza della necessità, per la critica, se non di trasformarsi ipso facto in scienza, cosa che sarebbe inquietante, almeno di tentare di appoggiarsi su un procedimento rigoroso. Ma a questa esigenza si mescola l’affermazione di un altro principio: «Notre réponse ne sera jamais qu’éphémère, et c’est pour cela qu’elle peut etre entière»; Barthes parte dall’evidente constatazione che l’opera del critico è relativa al suo tempo, al suo mondo, per estrarne un principio di relatività assoluta: «Bref, il faut qu’à la duplicité fatale de l’écrivain, qui interroge sous couvert d’affirmer, corresponde la duplicité du critique, qui répond sous couvert d’interroger».

Si vede qui allora ciò che è lasciato totalmente da parte: è il problema della verità. Barthes ha buon gioco nel ridicolizzare la concezione banale della verità, di una adaequatio rei et intellectus in cui l’oggetto e lo spirito — qui l’opera e la critica — potrebbero immediatamente ritrovarsi e corrispondersi perfettamente. Sembra dunque possibile introdurre una procedura più modesta e non meno rigorosa: non che il discorso critico abbia qualche pretesa di raggiungere la verità, ma si tratta di mantenere in ogni istante la garanzia offerta da una procedura di validazione.

Lo abbiamo già sottolineato: in senso stretto, le frasi di Barthes sono indecidibili, poiché si pongono al di fuori di ogni procedura di riproduzione. Possiamo provare a imitare Barthes, ma non possiamo rifarlo o correggerlo in un certo momento del procedimento: la volontà di rigore strutturalista non è che un aspetto, un momento di un metodo che, non può nasconderlo, non si vuole essenzialmente diverso da quello del creatore letterario o artistico. Posizione comoda, bisogna dirlo; opponiamo al critico il rigore della scienza, allo scienziato la libertà del creatore:

Je suis oiseau: voyez mes ailes…
Je suis souris: vivent les rats!
[8]

L’intelligenza e il talento di Barthes non sono in discussione: ci sembra che renda un cattivo servizio sia alla scienza che alla letteratura. I saggi, come le critiche, hanno il loro posto e il loro senso: costituiscono spesso, oltre il loro interesse intrinseco, come l’annuncio “metafisico” di una scienza futura; ma se un giorno qualcosa come una scienza della letteratura deve vedere la luce, ciò non potrà essere che grazie a un insieme di ricerche e procedimenti il cui primo carattere sarà di essere garantiti dal rigore di un metodo oggettivamente riproducibile e giustificabile secondo una procedura di validazione.


* In La Linguistique, vol. 5, fasc. 2, 1969, pp. 141-154.

[1] Sur Racine: a) «Il y a trois Méditerranées… Le vent ne se léve pas» (p. 15); b) Cette géograhie soutient un rapport ... tout ce qui n’est pas elle-même (pp. 16-17).
[2] Ringrazio J.-C. Gardin, senza il cui insegnamento non avrei avuto l’idea di una tale analisi, G.-G. Granger e G. Mounin di avermi dato l’opportunità di trarre profitto dalla loro scienza e dalle loro osservazioni. Il metodo di Michel Riffaterre, al quale deve essere dedicato uno studio indipendente, e per il quale si pongono problemi diversi, sarà qui lasciato volontariamente da parte.
[3] È in questo momento in effetti che la critica, per «spiegare» il testo, mette in rapporto la «struttura» (termine usato qui in senso vago) di questo insieme E con la situazione dell’autore, la sua biografia, il suo inconscio, il suo ambiente, la tradizione letteraria ecc.
[4] Nel profondo del loro palazzo la loro terribile maestà/ finge di rendersi ad essi invisibile;/ e la morte è il prezzo di tutti gli audaci/ che senza esser chiamati si presentano ai loro occhi (I, 3).
[5] Sur Racine, Histroire ou letterature, p. 166.
[6] Ibid., pp. 161-162.
[7] Ivi, p. 9.
[8] Sono un uccello; vedete le mie ali/Sono un topo; vivono i ratti!




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